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Primi giorni di gennaio 1656: un veliero dell’East India Company getta l’ancora nel porto di Surat, India occidentale. Tra la folla di mercanti e avventurieri europei sbarca anche un ragazzino italiano: si chiama Nicolò Manucci, ha diciott’anni. Ne aveva solo quindici quando è partito da Venezia, nascosto nella stiva di una tartana diretta a Smirne, in fuga dalla vita misera e limitata dei genitori verso quello che è ormai il sogno orientale di ogni viaggiatore: l’India. Per raggiungerla ha attraversato l’Impero ottomano e la Persia, toccando Ragusa, Bursa, Esfahan e Hormuz. A vederlo così, mentre si aggira per la cittadina masticando sospettoso la foglia di betel che gli hanno appena offerto, è difficile immaginare il futuro che lo aspetta. Eppure questo ragazzo ingenuo e spericolato vivrà per decenni fianco a fianco con gli uomini che hanno in mano il destino dell’India: i Moghul. Colta al volo l’occasione di introdursi nella corte di Delhi – dove ha sede il celebre Trono del pavone costellato di diamanti –, sarà soldato, cortigiano, medico, diplomatico, e infine narratore della propria storia. A partire dalla Storia do Mogor di Manucci e da uno studio diretto dei documenti, Marco Moneta ricostruisce per intero le peripezie di questa sorta di Candido veneziano: un racconto che ci porta in viaggio nel Deccan e a Goa, a Madras e a Golconda, con l’esuberanza del romanzo picaresco e il dettaglio prezioso di una miniatura. Conosciamo così il principe filosofo Dara Sîkoh, il suo spietato fratello Aurangzeb, il maharaja ribelle Shivaji e tutta una schiera di principi, principesse, sultani, eunuchi, mercanti, gesuiti, santi sufi, funzionari britannici e francesi, missionari cappuccini. Un veneziano alla corte Moghul coniuga la tradizione dei viaggiatori-scrittori come Marco Polo e Matteo Ricci e i grandi affreschi storici sull’Asia di Peter Hopkirk e William Dalrymple, riportando alla luce una storia insolita e a lungo dimenticata; e soprattutto ci riconsegna lo sguardo curioso e attento di Nicolò, la sua abilità nel rimanere in equilibrio per trent’anni sul filo assai sottile tra il vecchio mondo da cui proviene e quello, nuovissimo, alieno e affascinante, che gli si spalanca davanti.